Il processo si chiuse dieci anni dopo con l’assoluzione di tutti gli imputati. Il pubblico ministero dell’epoca, Luigi Cavadini Lenuzza, non è riuscito a dimostrare ciò di cui resta convinto: che l’esplosione sia stata dovuta a un cedimento del sistema di pompaggio, andato fuori giri per la manutenzione carente. E la bonifica resta carente
di Paolo Frosina
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“Alle ore 12 e 40 di giovedì 11 aprile 1991, nelle acque della Liguria a 4 miglia a sud di Voltri, sulla motonave Haven di bandiera cipriota con a bordo 36 uomini di equipaggio e tonnellate 140mila di petrolio greggio, si è verificata un’esplosione a seguito della quale la petroliera, gravemente danneggiata a centro nave, ha preso fuoco”.
Iniziava così il rapporto di Protezione civile sul più grave disastro ecologico mai avvenuto nel Mediterraneo. Quel mattino di trent’anni fa, ad appena 14 ore dall’incidente del Moby Prince, la superpetroliera VLCC Haven – 232.166 tonnellate di stazza lorda, 344 metri in lunghezza e 50 in larghezza, 283.626 metri cubi di carico – esplode incendiandosi di fronte al quartiere genovese di Voltri, dopo 18 anni di servizio.
Muoiono cinque membri dell’equipaggio, due greci e tre filippini: il tecnico Ioannis Dafnis, i marinai Domingo Taller, Gregorio Celda e Serapion Tubonggan e il comandante Petros Grigorakakis, che si era attardato tentando di salvare i libri di bordo. Per tre giorni e tre notti di fila la nave brucia a poca distanza dalla costa, avvolta da una montagna di fumo nero alta un chilometro. Alle 10:05 del 14 aprile, con un’ultima esplosione, si inabissa a poca distanza dal porto di Arenzano, primo comune a ovest del capoluogo ligure, portando con sé le 50mila tonnellate di petrolio che l’incendio non riesce a divorare.
La storia – La Haven discendeva da una stirpe maledetta: le sue tre “gemelle” (la Amoco Cadiz, la Maria Alejandra e la Mycene), uscite nel 1973 dai cantieri Asterillos di Cadice, erano affondate tra il 1978 e il 1980 con dinamiche simili. Nel 1988 un missile iraniano l’aveva intercettata nel Golfo Persico, causando un danno da 80 milioni di dollari: dopo tre anni di fermo per le riparazioni, la prima nuova rotta fu appunto quella verso Genova, dove arrivò a pieno carico il 9 marzo 1991.
Il 7 aprile scarica 80mila tonnellate per Tamoil al Porto Petroli di Multedo, nel ponente cittadino. È allora che il sistema di pompaggio tra cisterne segnala una prima avaria: per precauzione la nave si allontana dal porto e ormeggia in rada, al largo di Voltri, ma l’armatore – la compagnia greca Troodos – sceglie di non farla rientrare al Pireo per la manutenzione, inviando i propri tecnici in Italia. La mattina dell’11 aprile, per correggere l’assetto della petroliera, l’equipaggio procede a un nuovo travaso di carico dalle cisterne a prua a quelle centrali, che porterà all’esplosione.
Le vittime moriranno nell’incendio, i corpi non saranno mai recuperati. Il giorno dopo, il 12 aprile, un rimorchiatore aggancia la Haven dal timone di poppa e inizia ad avvicinarla alla costa di Arenzano, per contenere l’espansione della macchia di idrocarburi. Durante il tragitto, però, la sezione di prua si stacca dal resto dello scafo e precipita al largo con due giorni d’anticipo.
Il processo – A dispetto delle dimensioni, la catastrofe è rimasta senza responsabili. Il processo per omicidio colposo e disastro ambientale a carico degli armatori, Lucas Haji e il figlio Stelios, e del direttore dei lavori di riparazione, Cristos Dovles, si è concluso nel 2002 con tre pronunce conformi di assoluzione per insufficienza di prove. Il pubblico ministero dell’epoca, Luigi Cavadini Lenuzza, non è riuscito a dimostrare ciò di cui resta convinto: che l’esplosione sia stata dovuta a un cedimento del sistema di pompaggio, andato fuori giri per la manutenzione carente.
“Era l’unica ricostruzione logica”, ricorda, raggiunto da ilfattoquotidiano.it. “Altrimenti dovremmo immaginare che il responsabile del travaso, il primo ufficiale di coperta, abbia volontariamente sovraccaricato il sistema, comportandosi in modo suicida. Purtroppo, però, non è stato possibile dimostrare il cedimento sul piano tecnico, trovandone i segni materiali, cioè il tratto di tubatura rotto. Una perizia direttamente sul relitto, a 80 metri di profondità, era impossibile da immaginare. Perciò non mi hanno sorpreso le sentenze di assoluzione, anche se a mio avviso si sarebbe potuti arrivare a conclusioni diverse”.
L’accordo stragiudiziale chiuso nel 1998 tra la Troodos e lo Stato italiano ha previsto un versamento, da parte della compagnia, di 117 miliardi e 600 milioni di lire a titolo di risarcimento danni. Di questi, 62 sono andati ai comuni costieri danneggiati dal disastro, solo 32 alla Regione per gli interventi di bonifica.
Il relitto – Ancora oggi, quel naufragio del 1991 continua a influenzare l’ecosistema delle acque di fronte a Genova. Se in positivo o in negativo, è oggetto di dibattito. Il lascito in apparenza migliore è il maestoso relitto della Haven (o meglio della sezione di poppa, trainata dai rimorchiatori fino a 2,5 chilometri dalla riva): la più grande nave sommersa visitabile al mondo, paradiso per i sub di ogni continente e ormai a tutti gli effetti un’attrazione turistica della riviera.
Non solo, ma la struttura – ripulita dai residui di petrolio – si è trasformata in una barriera artificiale capace di attirare specie mai viste da quelle parti. Gianni Risso, 77 anni, è un foto-subacqueo con all’attivo una ventina di visite al relitto (l’immagine in evidenza è una sua foto). “Le prime immersioni l’ho fatte quando ancora erano in corso le bonifiche. Ricordo strati di catrame densissimo, che i sommozzatori sollevavano e arrotolavano, come fosse un tappeto. Negli anni è cambiato tutto. Ora la Haven è uno spettacolo sottomarino, a tratti somiglia al mar Rosso. Attorno si è creato un habitat dalla biodiversità molto più ricca di quanto non fosse prima con un anonimo fondale sabbioso: ci sono ostriche, gigli di mare, spugne, anemoni, specie pregiate come saraghi, aragoste, ricciole e dentici”.
L’inquinamento marino – Il rovescio della medaglia, però, sta nella mancata bonifica dei fondali. I 32 miliardi a disposizione – in parte dirottati sull’area dell’ex fabbrica Stoppani di Cogoleto – sono bastati appena a intervenire sul relitto, eliminando il petrolio e i combustibili intrappolati a bordo. A sovrintendere alle operazioni per conto dell’allora ministero della Marina mercantile fu Ezio Amato, 64 anni, biologo marino, attuale responsabile delle emergenze ambientali in mare dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale).
“Oltre i dieci metri di profondità non si è bonificato nulla”, spiega a ilfattoquotidiano.it. “Sul fondo del mar Ligure continuano a esserci migliaia di tonnellate di residui bituminosi di idrocarburi, che contengono molecole cancerogene, teratogene (capaci di indurre malformazioni, ndr) e mutagene. All’epoca delle indagini, nella fauna ittica stanziale di quell’area abbiamo trovato un’incidenza di tumori superiore a quella del gruppo di controllo”. E, anche se non ci sono studi in proposito, appare plausibile che l’inquinamento, attraverso la rete trofica, possa arrivare fino all’uomo: “Penso agli scampi, agli scorfani, alle molve o alle sogliole, specie che vivono in stretta relazione con il fondale marino. Li abbiamo già visti, negli anni dopo il naufragio, costruire le proprie tane nel catrame. Lo stesso relitto non può essere considerato innocuo: ci sono vernici, olii lubrificanti, molecole che possono ancora essere causa di impatti sugli equilibri ecosistemici. Mettiamola così: capisco la gioia dei pescatori, ma io, benché barese, le ostriche della Haven non ho mai pensato di mangiarle”.
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